Suggestioni nepalesi.

La Valle di Kathmandu, capitale del Nepal, è indubbiamente uno dei maggiori “musei a cielo aperto” del pianeta. Luogo di indimenticabili suggestioni anche per la cultura lisergica degli anni ‘60, Kathmandu resta una meta imprescindibile per la conoscenza e la comprensione della cultura dell’Oriente.

In questo caleidoscopio di straordinarie testimonianze della raffinata architettura buddhista, spicca su una collina ad ovest del centro, non distante da Durbar Square, l’inconfondibile sagoma di uno degli stupa (monumento religioso buddista) più sacri del paese: il tempio di Swayambhunath (foto 1).

tempio di Swayambhunath

Foto 1 – Tempio di Swayambhunath

Attorno al gigantesco stupa principale sono collocati numerosi piccoli stupa e pagode (tipiche costruzioni non solo ad uso religioso diffuse in tutto l’oriente, foto 2), ruote di preghiera (foto 3) nonché altri templi più piccoli, oggetto di grande devozione da parte dei fedeli.

Stupa e pagode

Foto 2 – Stupa e pagode

Ruote di preghiera

Foto 3 – Ruote di preghiera

La nostra leggenda si focalizza su uno di questi templi, situato a nord-ovest rispetto al centro del complesso: quello di Shantipur (foto 4).

Shantipur

Foto 4 – Tempio di Shantipur

Una piccola libreria, un libricino, una leggenda viva

Il tempio in questione è uno dei più noti tra gli edifici del gruppo, essendo la sua fama legata ad una leggenda molto conosciuta tra la popolazione e le guide locali, leggenda che abbiamo ritrovato riportata con dovizia di particolari in un vecchio libricino trovato casualmente in una piccola libreria di Kathmandu (foto 5).

Libreria

Foto 5

Si narra infatti che il tempio sia la dimora, da oltre 1500 anni, di un antico Re indiano del West Bengal chiamato Shantikacharya. A quell’epoca, il sovrano si recò in Nepal per ricevere un’iniziazione tantrica che lo rese immortale nonché capace di evocare e dominare gli spiriti. Completata la sua istruzione, il saggio Shantikacharya si rinchiuse nelle profondità del tempio in solitaria meditazione, giurando di riemergervi solamente “quando non vi sarà più alcun buddhista nell’intera Valle di Kathmandu”.

Nel corso dell’XI secolo, su preghiera del Re del Nepal Gunakam Deva, il saggio Shantikacharya riuscì a porre fine ad una furiosa siccità attirando attraverso un rito tantrico nove serpenti e le loro spose, i quali posero fine alla siccità provocando un’intensa pioggia sulla vallata.

Prima di liberarli, Shantikacharya usò il loro sangue per costruire un potente Mandala (diagramma sacro) il quale avrebbe recato la pioggia ogni volta che fosse stato esposto al Sole.  Dopodiché, la porta di accesso ai penetrali del tempio fu chiusa e tale resta anche ai giorni nostri (foto 6), tranne che per il Re del Nepal, il quale, ancora oggi, discende nelle profondità del Tempio solo in frangenti di estrema gravità e pericolo per le sorti del paese.

La porta chiusa

Foto 6 – la porta chiusa

Si narra che durante una nuova, grave siccità che colpì il paese nel 1658, il Re del Nepal dell’epoca varcò per una seconda volta le porte del Tempio per supplicare l’aiuto di Shantikacharya; disceso nelle profondità del Santuario, il Re ritrovò l’antico anacoreta il quale, ormai ridotto ad uno scheletro ricoperto da una sottile pelle e seduto in posizione di meditazione, indicò al re una lamina di rame posta sopra la sua testa. Sulla lamina vi era il misterioso Mandala dipinto quasi mezzo millennio prima con il sangue dei serpenti. Il Re espose la lamina al Sole e la pioggia cadde immediatamente.

La storia però non finisce qua. Riposta la lamina nel Tempio, il Re uscì di nuovo all’aria aperta ma si accorse improvvisamente di come la sua ombra, proiettata su di una roccia, fosse priva di testa; allora il Re pregò il maestro Shantikacharya di restituirgli il cranio, promettendogli in cambio un’offerta annuale di una moneta d’oro al Tempio, tradizione questa che permane ancora oggi.

Elementi in comune con altri miti

Senza troppo addentrarsi nella complessità ermeneutica del racconto appena esposto, mi limito a sottolineare come esso contenga alcuni elementi chiave delle tradizioni e dei racconti di ogni epoca, come ad esempio:

  • il mito della discesa agli Inferi (catàbasi), molto comune in ogni corpus mitico; basti solo pensare ai viaggi ultramondani di Orfeo, Ulisse (Odissea, XI libro), Enea (Eneide, VI libro) fino ovviamente allo stesso Dante
  • il controverso culto del serpente (ofiolatria)

Riguardo al secondo punto, lungi da noi anche solo accennare alla complessità di tale mito, comune peraltro ad ogni cultura ancestrale dai greci (es. il caducèo di Esculapio), agli Indù (i mitologici Nāga) fino agli Indiani d’America.

Collegamenti con i miti greci

Mi limito però a riferire, a conclusione di questo breve scritto, di un mito greco che sembra riunire, come la leggenda nepalese sopra raccontata, entrambi questi complessi topos cultuali. Sto parlando del mito dell’Oracolo di Trofonio, su cui ci riferisce il grande viaggiatore Pausania (II secolo d.C.) nella sua Periegesi della Grecia (IX, 39).

Narra Pausania che l’Oracolo avesse la propria sede nella profonda grotta di Labadea, situata presso l’antico fiume Hercyna in Beozia, e che per accedervi, il devoto dovesse essere purificato e unto con olio da un Sacerdote, per poi libare dell’acqua di due sorgenti: la prima per dimenticare l’intero suo passato (forse analogia con la “perdita della testa” nella leggenda nepalese…?), la seconda per ricordare le proprie esperienze una volta disceso nella grotta dell’Oracolo.

Per evitare di essere preda dei numerosi serpenti che albergano nell’antro sotterraneo, l’iniziato deve recare con sé alcune focacce di miele, in modo da distrarre i sibilanti ospiti del complesso ipogeo.

Infine, continua Pausania, “colui che discende trova fra il pavimento e la volta un buco della larghezza di due spanne e dell’altezza come ci parve di una spanna. Quello adunque che scende coricatosi sul pavimento tenendo focacce impastate con miele mette i piedi nel buco, ed egli stesso vi passa cercando che le ginocchia sue siano dentro la caverna. Il rimanente del corpo subito è tirato e scorre appresso alle ginocchia come il più grande e veloce de’ fiumi coprirebbe un uomo preso da un vortice. Quindi quelli che sono dentro il recesso non sono sempre da una sola e stessa maniera del futuro ammaestrati, ma altri lo vede, altri lo ascolta. Quelli che sono discesi ritornano per la stessa bocca per cui sono entrati, mandando fuori prima di tutto i piedi. Dicono che niuno di quei che vi sono discesi sia morto…” (trad. di Antonio Nibby)

Ing. Andrea Tonelli